Omeila ha subito un aborto spontaneo alla nona settimana di gravidanza. Lo ha scoperto solo alla visita del trimestre, quando ormai di settimane ne erano trascorse dodici. Si è trattato di un aborto “ritenuto”, e cioè la gravidanza si è interrotta senza l’espulsione della camera gestazionale e dell’embrione. Tale condizione può protrarsi per ore, giorni o, come nel caso di Omeila, settimane dopo l’interruzione della gravidanza e la possibilità di complicanze aumenta con il tempo. 

Per questo, l’attesa è considerata un trattamento dell’aborto quando è possibile prevedere l’espulsione naturale della camera gestazionale e del feto dall’utero in condizioni di sicurezza e senza eccessi patimenti. In caso di necessità, l’espulsione può essere sollecitata con dei farmaci. Alternativo al trattamento dell’attesa è il trattamento chirurgico, che può consistere nell’isterosuzione (aspirazione) dell’aborto o nella revisione uterina (c.d. raschiamento) o, più spesso, in una combinazione dei due trattamenti.

Il giorno 9 dicembre 2022, Omeila, su indicazione della propria ginecologa, si è recata presso l’Azienda Ospedaliera San Giovanni addolorata in preda a dolori e perdite, ma è stata mandata a casa senza nessuna informazione sulla sua condizione, sul decorso dell’aborto e sulle cure che avrebbero potuto esserle somministrate. Il giorno successivo, Omeila è tornata al pronto soccorso in quanto dolori e perdite erano aumentati. Nemmeno in questo secondo accesso ha ricevuto alcuna informazione. Di nuovo è stata invitata a tornare a casa, ma la grande preoccupazione e i dolori l’hanno consolidata nella determinazione di non assecondare l’invito. È rimasta nel pronto soccorso contro le indicazioni del personale sanitario. Le è stata offerta una barella e nessuna informazione specifica, se non che l’attesa avrebbe potuto richiedere ore o settimane “prima di un’espulsione completa”. Invece, la sera del 10 dicembre, dopo sette ore di attesa nel pronto soccorso, Omeila è stata ricoverata a causa del peggioramento delle sue condizioni e, poco prima di mezzanotte, finalmente operata. L’intervento è consistito in una isterosuzione con raschiamento per il quale le è stato chiesto di firmare il consenso informato. Prima dell’intervento, ogni relazione tra il personale sanitario e Omeila è stata gravemente manchevole rispetto all’obbligo di rendere una completa informazione sullo stato di salute, sulle cure in corso e sulle possibili alternative.

Nello specifico, l’aborto spontaneo ritenuto è stato inizialmente “curato” con l’attesa, senza alcuna specifica informazione del fatto che tale trattamento, nelle intenzioni del personale medico, costitutiva, appunto, una cura. Senza alcuna specifica informazione in merito al decorso dell’attesa, alle possibili complicanze, alle condizioni al ricorrere delle quali sarebbe stato necessario intervenire farmacologicamente o chirurgicamente. Solo al peggiorare del quadro clinico, il trattamento dell’attesa è stato abbandonato e si è scelto di procedere chirurgicamente.

L’applicazione del trattamento dell’attesa, senza alcuna informazione e senza la verifica dell’esistenza delle condizioni idonee per somministrarlo, contrasta con le linee guida dell’OMS sull’aborto spontaneo e viola il dovere di informativa che grava sul personale medico. Il comportamento dei sanitari ha violato l’art. 1 della legge 22.12.2017, n. 219, gli artt. 2, 13 e 32, comma 2 della Costituzione, gli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e l’art. 5 della Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina: Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina”, redatta ad Oviedo in data 04.04.1997 e ratificata dallo Stato italiano con legge 28.03.2001, n. 145. In definitiva, sono state violate le norme che dovrebbero garantire il diritto di autodeterminarsi rispetto alle cure somministrate ed il diritto alla salute. Diritti violati in nome di uno sciatto paternalismo di chi pretende di curare il corpo senza avere cura della persona.